venerdì 24 ottobre 2008


Mostra Personale di Cristina Annino
8 Novembre 2008 -29 Novembre
inaugurazione sabato h. 16

Biblioteca P.P. Pasolini - Spinaceto
Viale dei Caduti per la Resistenza, 410/b - 00128 Roma
contatti telefono (0039) 06 45460521
fax (0039) 06 5083275
e-mail : pasolini@bibliotechediroma.it
a cura di : Sebastiano Messina e Tiziana Di Bartolomeo
critica di: Gianluca Tedaldi
ufficiostampa : ufficiostampa@espressionidarte.it
PER ISOLE E TEMPESTE DI PITTURA

La cognizione dell’arte moderna non produce in Cristina Annino cagione alcuna di timore nel presentare i suoi lavori, nei quali si rende indipendente dalla natura (largamente deformata e ricreata), si avventura in una ricerca psichica, non psicologica, per materializzare un messaggio ineffabile e esprimere un’esperienza quasi mistica.
In questa pittura il ritmo della figurazione tiene avvinto l’essere delle cose, impedendo che pericliti verso l’ombra e la rovina; qui tutto è ritmo per scoprire il senso nascosto degli oggetti, simboli di una vita profonda, corrispondenze fra il visibile e l’invisibile. Tutte le immagini seguono un ritmo cupo e straziato, ora unico e monotono, ora plurimo e polifonico, infatti i campi tonali oscillano da un pieno ossessivo a un vuoto informe e privo di struttura, la materia inarticolata che sottende la forma e la mutazione: è il ritmo che mantiene l’opera d’arte nel suo spazio autentico (misura, ratio, logos) e contraddittorio (dismisura, irrazionalità, pathos).
Poco importa che Robinson-Cristina intraprenda con angoscia o con gioia a spingersi fuori, più lontano di ogni mondo esterno; si separa, si allontana dai continenti del senso comune, accetta di sentirsi sola e sperduta, di ripartire da zero, di ritrovare la realtà a partire da un segno distruttivo, primigenio, elementare.
Accanto alle isole artificiali, verso cui si va alla deriva, vi sono anche delle isole originarie, radicali e assolute, che si rivelano un dentro più profondo di ogni mondo interno.
Queste isole sono quadri, modelli di una riemersa anima collettiva.
In un lapidario stile narrativo Cristina Annino cannibalizza la vita, divorandone le infinite possibilità, delle quali solo una circoscrive e persegue con accanimento: l’espressione artistica.
La sua ricerca oppone la passione di corpi debordanti, capaci di un afflato quasi epico, al disagio che l’esistenza restituisce sotto forma di una crudele solitudine.
La pittura testimonia la sofferenza che la carne infligge a se stessa, ma anche la commiserazione di sé, appena alleviata dalla presenza demiurgica, misteriosa, inquietante di vari animali, creature rimaste pure, non toccate dalla follia feticistica dei nostri tempi disumani.
Cristina Annino non rincorre figurazioni (forme riferite a oggetti da rappresentare), ma figure connesse alle sensazioni evocate, secondo un percorso che unisce Cézanne a Bacon e che si manifesta come un agente di deformazione e corruzione del raffigurato, per questo non rimane chiusa in una prigione iconica tradizionale, ma libera tutte le forze interiori che agiscono sotto l’apparente primato dell’identità e dell’identico.
Si determina così l’irruzione dell’io, creatore e latore di senso, nel molteplice riconosciuto, nella dissomiglianza, nell’alterità: il tratto pittorico assume coordinate, dinamismi, orientamenti segnati da una forte coerenza interna e da un’altrettanto pronunciata discontinuità.
Ciò che si sottrae alla profondità risale alla superficie e costituisce tutta la corporeità possibile, definita da una carica causale e sacrale; i simulacri sotterranei dell’angoscia diventano realtà percepita, i corpi del dolore prendono figura e trasmutano, disponendosi dentro composizioni immaginative, memoriali, inconsce: si presentano sulla scena madri viscerali, animali franchi e sanguinanti, corride sconnesse, crocifissioni e resurrezioni avventurose, sentimenti deliranti, volti che escono dai colori come impeti ripugnanti a qualsiasi conciliazione armonica.
Ci si trova violentemente gettati nei colori, perché i quadri appaiono come tempeste che si rovesciano negli interstizi fra vedere e visione, sia che ricorrano neri dannati, bianchi acidi, rossi corrosi, verdeblu aberranti, rosa dissonanti, gialli funebri, sia che si producano accostamenti cromatici non preparati dalla morbidezza di un disegno rassicurante, ma rovesciati nello spazio della tela o del legno a segnare l’incontro/scontro con le cose.
In linguaggio deleuziano il senso di ciò che Cristina Annino esprime non esiste al di fuori dell’espressione pittorica e poetica (l’alter della sua attività intellettuale), non sussiste un extrasenso fondante, incorporeo e metafisico.
Ridotti a una completa bidimensionalità, i corpi scorrono sulla superficie in quanto muniti di una radice esistenziale che si dispiega fra la perfezione (inattuabile) e il nulla (limite concettuale di ogni progetto umano): riempire il tempo con il proprio vissuto, ripartirsi nello spazio straziandosi, questo fanno gli esseri di Cristina Annino (la vedova, gli amanti, i suicidi, i cani d’erba, i cavalli), quando cercano di divellere le gabbie sulfuree della quotidianità.
Si scopre in Cristina Annino una materia sottotemporale, un sottosuolo della coscienza che preme con la sua immediatezza pre-categoriale per salire al mondo della vita (lebenswelt) per mezzo di un’infinita apertura agli eventi.
Nella loro plénitude concrète le figure cercano di togliersi le maschere dell’inesistenza a cui le condanna il terribile congegno del conformismo sociale: tentano in ogni modo di scrollarsi di dosso l’abitualità di comportarsi come monadi irrelate agli altri.
Per questo annoto nella pittura di Cristina Annino la coincidentia oppositorum di frammenti in un continuum, quasi un ciclo pittorico civile e sacro, in cui tutte le linee convergono verso il dialogo, verso una nuova fondazione del rapporto soggetto-mondo.
Ai pesanti macchinari della produzione l’Autrice preferisce il teatro del sentimento e del linguaggio, in cui il soggetto opera realmente come donatore di senso, muovendosi tra l’essenza originaria della coscienza e la contro-essenza del mondo.
La questione non è riassorbire l’Altro nel medesimo e riaffermare la supremazia solipsistica dell’io, quanto procedere dinamicamente dagli stati di cose all’espressione pittorica per neutralizzare l’opacità della realtà.
Cristina Annino deforma, inventa, decora, ci lascia una fauna fantastica da decifrare, segna con energia le linee di contorno: i corpi quasi non hanno dettagli, i volumi escono dalla superficie come massa semplificata, si raggiungono effetti plastici con larghi piani di puro colore, accelerando la rottura degli equilibri e delle simmetrie.
Il tratto primitivo non deve ingannare, esso rinuncia all’equilibrio, alla simmetria, alla proporzione, per farsi energia, movimento, tensione: non basta che il pittore sia padrone del proprio stile; bisogna che questo stile sia padrone delle cose e della storia da cui proviene.
Cristina Annino si impegna in una pittura centrifuga, che svelle pezzi di realtà e li proietta fuori dal visibile, in un gesto liberatorio e fortemente comunicativo; la sua pittura è dialogo, gesto sociale di incontro con l’Altro sul comune terreno dell’inquietudine; allo stesso tempo questa pittura è sacrale nel delineare una proprorzione tra speranza e non speranza.
Se sia possibile un riscatto, se il dolore sia una misura di purezza o insensata lama nelle carni degli individui, questo lo potrà giudicare ogni osservatore, ogni spettatore e astante che abbia voglia di attendere l’inatteso.

Nereidi, 28 gennaio 2006 Donato Di Stasi





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